Imparare a guardare fuori

Data:
20 Aprile 2009

Da circa tre anni lavoro presso l’Assessorato ai Trasporti della Regione Puglia, dove mi occupo di pianificazione e gestione di interventi di ricerca ed educazione nella sicurezza stradale. In questo periodo i miei colleghi di lavoro sono prevalentemente ingegneri ed architetti e spesso dalla mia comunità professionale mi sento rivolgere la fatidica domanda: “ma non fai più l’assistente sociale”?
Mi rendo conto che sia difficile immaginare per l’assistente sociale un ruolo in un contesto tanto lontano. Eppure, aldilà delle facili valutazioni di qualcuno, mi sembra opportuno presentare questa riflessione, non solo per testimoniare una diversa interpretazione della professione, ma anche per sollecitare un sereno dibattito sul tema esposto nel titolo.
Con la complessità sociale contemporanea e le grandi trasformazioni del mondo del lavoro è diventato decisamente più difficile definire i confini delle professioni. Soprattutto per quelle professioni che attraversano profonde crisi.
In molti riteniamo che il Servizio sociale professionale italiano, già penalizzato da pesanti fardelli storici, continui ancora oggi ad affrontare durissime avversità.
Il Servizio sociale professionale italiano risente di una crisi che si concretizza in diverse espressioni, soprattutto nel Sud del nostro Paese, fra cui la storica insufficienza dei Servizi sociali, l’endemica carenza dei professionisti in organico, le ansie generate dagli eccessivi carichi di lavoro, la sensazione di inadeguatezza che discende dalla carenza di mezzi e di risorse indispensabili per l’espletamento corretto della professione e il problematico avvio della riorganizzazione dei Servizi prevista della legge 328/2000.
Crisi della professione, peraltro, inserita in un contesto macro-sociale, storico, economico e ambientale anch’esso in piena transizione.
In questo scenario, una ri-definizione dei limiti e dei confini della nostra professione è essenziale per la sopravvivenza della stessa, perché rinvia all’identità professionale, al senso di appartenenza alla “categoria”, alla difesa delle nostre specificità e della nostra storia.
Per analizzare con ordine questi problemi, penso sia giusto partire da una domanda fondamentale, benché scontata: che cos’è una professione?
Fra le numerose definizioni esistenti, individuerei quella proposta da Luciano Gallino (1):
… una professione è un’attività lavorativa altamente qualificata, di riconosciuta utilità sociale, svolta da individui che hanno acquisito una competenza specializzata seguendo un corso di studi lungo ed orientato precipuamente a tale scopo. […] Subito dopo Gallino aggiunge:
… il confine fra le professioni varia ampiamente da una società all’altra, da un’epoca all’altra, e perfino da un ricercatore all’altro, a seconda delle variabili che si prendono in conto …
Applicata al Servizio sociale professionale, una definizione di questo tipo solleva una serie di questioni.
Posto che per “attività lavorativa altamente qualificata” possiamo dare per acquisito l’insieme degli elementi fondativi della specificità della professione – in termini di principi e di metodi – è consequenziale il problema del riconoscimento della professione, decisamente più complesso.
Riconoscere una professione da un’altra non solo implica la comparazione fra i rispettivi contenuti scientifici ed esperienziali, sottintende anche un’equidistanza, un approccio equilibrato nei confronti dell’immagine che caratterizza la professione, senza farsi intrappolare in facili stereotipi.
Noi operatori sociali dobbiamo preoccuparci sia di “comunicare” la professione nel suo senso oggettivo sia di auto-percepirci con altrettanta correttezza (che, evidentemente si riferisce al ruolo tecnico della professione nella costruzione della relazione di aiuto, della community care e della welfare society nel senso più ampio). Pertanto, quando, ancora oggi, l’assistente sociale è comunemente associato a colei/colui che “eroga sussidi” (insufficienti) o che “invade” la sfera affettiva e relazionale delle famiglie, piuttosto che rappresentare una risorsa che facilita la soluzione dei problemi e agevola il miglioramento della qualità della vita delle persone, ciò è attribuibile anche ai problemi di immagine, di comunicazione e di auto-percezione della professione.
La seconda questione è quella della competenza specializzata.
La nostra credibilità e autorevolezza, nell’esercizio della professione, passano attraverso un livello elevato di competenza, che si consegue in gran parte successivamente alla laurea (il corso di studi lungo …), ma che – come sappiamo – non può essere neppure raggiunto solo con l’esperienza.
In altri termini, non ci si può illudere di incasellare i propri saperi, come direbbe l’ antropologo Pierre Bourdieu (1972) (2), solo nella dimensione fenomenologica (limitandoli all’esperienza personale della relazione con il mondo sociale) oppure oggettivista (fondando le proprie certezze sulla casistica dell’esperienza) o, ancora, prassiologica (concentrandosi solo sullo scambio di conoscenza fra se stessi e il mondo esterno).
Nel bilancio delle competenze di chi opera nel Servizio sociale non sono sufficienti neppure questi tre livelli messi insieme, in quanto sono indispensabili anche altri elementi come la motivazione, il senso di responsabilità, il rispetto per la deontologia, la formazione continua, la creatività,…
L’ultima questione è quella del confine (che Gallino pone in diretta correlazione alla definizione del concetto di “professione” (3) e di ciò che esso rappresenta per la nostra professione.
Si tratta di un aspetto, al tempo stesso, intrigante, interessante e decisivo nel futuro sviluppo del Servizio sociale professionale.
Secondo l’Autore, le variabili che determinano i confini di una professione sono correlate alle differenze fra società, epoche e interpretazioni individuali dei professionisti.
Tuttavia, a questi elementi devono essere aggiunti anche i limiti che, presenti in tutte le professioni, per alcune costituiscono veri e propri confini obbligati.
Uno dei maggiori elementi di crisi strutturale del Servizio sociale professionale – oltre ai problemi brevemente descritti – è rappresentato dalla questione della produzione scientifica della nostra professione: un’elaborazione teorica frammentata, malata di eclettismo e riduzionismo, subordinata alla cronica “dipendenza” da altri saperi, come quelli psicologici, sociologici, giuridici ed economici4. Un sapere intrappolato nella dimensione delle pratiche, anzi, della pratica del fare.
Nonostante questi limiti, il Servizio sociale dispone di una cultura professionale specifica, topica e consolidata che può e (a mio parere) deve essere “esportata” in altri ambiti disciplinari e professionali.
Dopo decenni di condizionamenti dall’esterno, in questo periodo storico di crisi e paradossi è giunto il momento di “guardare fuori”, di travalicare i confini della nostra professione, per ragioni vitali per la professione.
I nostri approcci relazionali, l’habitus specifico dell’organizzazione delle reti, le metodologie e le tecniche di ricerca e di supervisione, la pratica acquisita nella pianificazione e nella progettazione sociale, perfino le azioni sono importanti e generalmente apprezzate anche negli ambiti disciplinari e professionali apparentemente più lontani dal nostro.
Sono naturali le alleanze e le cooperazioni fra professioni e ambiti disciplinari diversi e da queste forme di reciproco scambio scaturiscono in genere buone prassi e miglioramenti della qualità.
Anche il Servizio sociale italiano, in passato, ha collaborato con l’economia e l’urbanistica (professioni non “contigue” per interessi e caratteristiche) e c’è ancora spazio per i nostri linguaggi e per le nostre pratiche presso altri ambiti.
Sono fermamente convinta che sia importante guardare oltre i propri confini, con curiosità, rispetto, desiderio di contribuire in contesti non usuali, voglia di mettersi in gioco.
Ciò aiuta la nostra professione a farsi conoscere, ad affermarsi, a contribuire allo sviluppo sociale ed economico e, non ultimo, a non farsi progressivamente sottrarre i propri tratti peculiari da figure professionali e funzionali che stanno sorgendo e si stanno moltiplicando sulla base di “segmenti” del Servizio sociale professionale (si pensi alle ambigue connotazioni di alcuni mediatori, facilitatori, animatori,…).
Un Servizio sociale che “guarda oltre” sé stesso aiuta a migliorare l’attenzione e la considerazione verso le fasce più deboli della popolazione, in qualunque settore della vita sociale. Che, poi, è la missione fondamentale della nostra professione.

 

[box] 1) Cfr. Luciano Gallino, Dizionario di Sociologia, 
2) Pierre Bourdieu, Per una teoria della pratica, ed. Cortina, Milano, 2003
3) Evidenziando, quindi, che l’elemento del confine è intrinseco alla definizione stessa della professione, nasce contestualmente alla professione.
4) Sulla costruzione di un sapere professionale specifico nella disciplina del Servizio sociale, si consideri il testo di Antonio Nappi, Questioni di storia, teoria e pratica del Servizio sociale italiano, ed. Liguori, Napoli, 2001 [/box]

Ultimo aggiornamento

20 Aprile 2009, 18:07