Il ruolo dell'Assistente sociale in hospice: considerazioni di un'esperienza personale
Sono Giuliana Negro, Assistente Sociale Specialista, volontaria presso L’Hospice “Casa di Betania” di Tricase.
Ringrazio innanzitutto il dott. Pietro Sgobba per avermi invitata a partecipare a questa giornata di studio e spero che, nonostante la mia breve esperienza in hospice, io possa contribuire nel mio piccolo a portare alla luce alcuni spunti di riflessione sull’argomento.
Comincio brevemente a presentare la struttura in cui da poco presto servizio: si tratta dell’Hospice “Casa di Betania” di Tricase, convenzionato dal 2009 con la U.S.L. di Lecce per l’erogazione di cure palliative in regime residenziale a pazienti affetti da patologie in fase terminale nel n° di 30 posti letto. Essendo l’hospice classificato quale struttura territoriale, l’ammissione degli assistiti è stata subordinata alla valutazione dell’ Unità’ di Valutazione Multidimensionale del DSS di Gagliano Del Capo appositamente costituita, la quale ha il compito di verificare i requisiti di accesso (aspettativa di vita, situazione sociale e familiare; ecc.)
Il personale operante è composto da: personale medico ed infermieristico, operatori socio-sanitari, fisioterapisti, psicologi, assistente sociale, volontari e assistente spirituale.
Alcuni dei principi fondamentali delle cure palliative come quelli di globalità e personalizzazione dell’intervento, unità di cura malato-famiglia e autodeterminazione del paziente, sono parte integrante dei fondamenti teorici e metodologici del Servizio Sociale fin dai suoi albori. In letteratura è stato evidenziato come la riuscita di un percorso assistenziale di “cure palliative” è riconducibile alla compliance – quindi alla sinergia – che si sviluppa all’interno della triade malato – famiglia – équipe curante, in sintonia con una visione olistica della prestazione assistenziale. E’ possibile dunque affermare che la presenza della famiglia, e ciò che essa può rappresentare in termini di relazione affettiva e supporto, può concorrere alla qualità di vita del morente.
A questo proposito, anche il legislatore ha mostrato particolare attenzione nei confronti della famiglia, come si evince anche dagli importanti richiami legislativi ( PSN 98 – 2000 e PSN 2006 – 2008) che identificano proprio nella famiglia un nodo cruciale della rete assistenziale. La famiglia riveste, pertanto, un doppio ruolo; sia come richiesta assistenziale, sia come risorsa che permette una forte alleanza terapeutica durante il processo di aiuto.
Sicuramente la malattia inguaribile costituisce un evento stressante per la famiglia perché si inserisce a volte in problematiche già esistenti e le peggiora, oppure ne crea di nuove. Infatti, l’improvvisa situazione che si viene a creare obbliga i familiari ad affrontare una serie di adattamenti che inevitabilmente mettono a dura prova l’equilibrio esistente. I principali fattori che sollecitano la famiglia ad adottare una diversa organizzazione possono essere, per esempio:
– la perdita o il radicale mutamento del ruolo che il paziente svolgeva in famiglia (es. quando il paziente è il capofamiglia, la moglie è portata a farne le veci);
– l’assunzione di responsabilità di cura da parte dei figli e il radicale rimodellamento delle priorità quotidiane;
– la necessità di entrare in contatto con servizi e istituzioni esterne alla famiglia (con le loro regole e procedure);
– la radicale trasformazione dei ritmi della vita quotidiana per rispondere alle esigenze dell’assistenza e della terapia;
– l’insorgere di eventuali difficoltà economiche;
– il disbrigo di pratiche burocratiche.
La recente Legge n. 38/2010, oltre ad sottolineare l’importanza di offrire un adeguato sostegno socio-assistenziale al malato e alla sua famiglia, attribuisce all’Assistente Sociale un ruolo ben definito, conferendo a questa professione maggiore legittimazione e riconoscimento in un settore che si caratterizza per un’alta intensità sanitaria.
L’hospice, infatti, quale struttura residenziale per l’erogazione di cure palliative, si configura indubbiamente come sanitaria sia per gli intenti che persegue, sia per la natura degli strumenti a tal fine utilizzati. Perché dunque prevedere la presenza stabile dell’assistente sociale laddove gli obiettivi prioritari sono volti principalmente a risolvere sintomi fisici e i destinatari si trovano in una fase così avanzata di malattia e con un’aspettativa di vita così breve?
Dal momento che la malattia non colpisce soltanto il corpo, ma la vita stessa delle persone, l’oggetto delle cure palliative non è limitato agli aspetti puramente organici, ma piuttosto considera la sofferenza che ne deriva a vari livelli dell’esistenza: fisico, psicologico, sociale e spirituale. In particolare per quanto riguarda i bisogni di carattere sociale, va tenuto presente che molto spesso nel malato oncologico in fase avanzata essi sono latenti. Infatti, nella storia lunga e spesso tormentata del decorso della malattia, si osserva che tutte le energie del paziente e dei suoi familiari sono indirizzate a fronteggiare la malattia in sé – assorbite dall’iter di accertamenti, diagnosi, terapie ed esiti – al punto tale che quando la famiglia arriva in hospice, i suoi bisogni sociali ne risultano profondamente trascurati. Quindi, nel momento in cui i sintomi fisici – ai quali va garantita la priorità assoluta – sono sufficientemente alleviati, tendono ad emergere anche i bisogni di carattere emotivo, spirituale e pratico tanto da parte del malato, quanto da parte della famiglia. Infatti le difficoltà organizzative dell’assistenza, lo stress emotivo causato dalla malattia inguaribile, la rabbia manifestata dal paziente e dai familiari o, ancora, vecchi rancori mai affrontati possono essere alla base dei conflitti che non di rado si manifestano o si acuiscono all’interno della rete familiare del paziente.
La mia breve esperienza professionale in hospice mi ha permesso di osservare che i conflitti sono riconducibili prevalentemente ad aspetti legali, economici e relazionali.
L’intervento dell’assistente sociale è rivolto innanzitutto all’utenza[1], ma in che modo?
Ciò avviene inizialmente attraverso un rapporto relazionale favorito dalla costruzione di uno spazio privilegiato entro cui il paziente può esprimere le proprie difficoltà e i propri dubbi circa il ricovero in struttura. Uno spazio nel quale il paziente racconta liberamente il percorso della sua malattia, la sua vita prima dell’evento critico, i suoi hobby, le sue relazioni passate, come in una sorta di racconto autobiografico. Successivamente, si instaura una relazione con i familiari attraverso un’iniziale e accurata raccolta di informazioni per valutare al meglio sia le risorse concrete e disponibili, sia gli eventuali bisogni che possono nascere nel nucleo familiare. Per fare emergere questi bisogni si procede con un’approfondita anamnesi sociale per fornire un quadro completo della famiglia e delle sue funzioni.
La valutazione sociale è tesa proprio a verificare il livello di assistenza che la rete familiare è in grado di garantire. Per descrivere al meglio la struttura familiare del paziente, io ho deciso di utilizzare il genogramma, strumento di analisi che viene poi riportato nella cartella clinica del paziente.
Il genogramma è la rappresentazione grafica della famiglia e permette di valutare le connessioni familiari da un punto di vista intergenerazionale. Tale strumento di lavoro fissa i rapporti significativi ed intensi del paziente e permette di interrogarsi sul senso di questi legami. Da qui la differenza con l’albero genealogico, che rappresenta invece la struttura esterna della famiglia, quindi i legami di parentela che intercorrono tra i suoi membri, senza tenere in considerazione quanto questi legami effettivamente interferiscano nelle relazioni affettive dei suoi componenti. Anche il genogramma parte dall’enunciazione dei dati anagrafici, ma guarda ad essi con una prospettiva psico-sociale e considera la famiglia come un sistema basato su un’insieme di relazioni e tiene conto non solo dei ruoli istituzionali, ma anche dei significati che ciascun membro attribuisce a quei ruoli. Esso si può quindi il definire come lo strumento che descrive la struttura interna della famiglia.
Il genogramma e i vari colloqui con i familiari e il paziente consentono all’assistente sociale di conoscere la storia familiare e gli eventi critici passati (es. lutto, eventi legati a malattie uguali a quella del paziente, separazioni etc.) per comprendere come sono stati affrontati i problemi in passato e per poter prevedere le principali modalità di coping (modalità di reazione) di quel malato e di quella famiglia. Si può, quindi, meglio ipotizzare qual è l’impatto della malattia su quel determinato nucleo familiare ed eventuali rischi relazionali futuri.
Una cosa importante da evidenziare nella valutazione sociale è l’eventuale presenza nella famiglia di individui particolarmente vulnerabili – come i disabili o i minori – che necessitano di particolare tutela o di pazienti “soli” che, per varie vicende personali e familiari, non possono contare sul supporto della famiglia o di una rete sociale e parentale adeguata. Altri casi degni di nota sono, inoltre, quelli legati a situazioni familiari per le quali, a causa di motivi logistici, è auspicabile un’assistenza domiciliare. In questi ultimi casi, l’assistente sociale, non disponendo degli strumenti per provvedere direttamente alla soluzione di questi problemi, ne gestisce l’invio ai servizi competenti, assicurandosi che l’intervento vada a buon fine. In questa fase il lavoro dell’assistente sociale si interfaccia, si relaziona con i servizi formali ed informali presenti sul territorio, mettendo in collegamento la famiglia con gli altri attori sociali come il medico di medicina generale, i volontari, gli operatori territoriali domiciliari, il distretto di competenza e le istituzioni in generale. In questo modo si sviluppano gli interventi di rete, i quali vengono attivati, per esempio, per seguire il figlio con dipendenza da alcool di un paziente vedovo che sta per morire; per assicurare ad un minore il supporto scolastico nel periodo critico del ricovero in hospice della madre; o, ancora, per cercare di ripristinare dei legami familiari corrotti dall’indigenza economica.
La pratica professionale permette di affermare che la riuscita dell’intero processo di aiuto dipende molto dalla capacità dell’assistente sociale di promuovere processi che sappiano valorizzare il ruolo attivo della famiglia, dei servizi e del volontariato: in questo senso si può parlare di ”ponte” che l’assistente sociale costruisce con le istituzioni esterne al servizio in cui opera. E’ proprio questo aspetto, ormai riconosciuto alla professione, che trova certamente un suo consolidamento anche nelle cure palliative, soprattutto in un periodo, come quello che stiamo vivendo, in cui la carenza di risorse economiche provoca diverse conseguenze negative sulla stabilità della famiglia moderna.
Il rapporto e lo scambio che può avere l’assistente sociale che lavora in hospice con gli attori sociali in gioco nella relazione di aiuto si esplica anche nel momento in cui i familiari hanno bisogno di chiarimenti ed informazioni per il disbrigo delle pratiche burocratiche indispensabili per il riconoscimento dei vari diritti di cittadinanza (es. il riconoscimento di invalidità civile per il malato, la possibilità per il familiare di avvalersi di permessi lavorativi per assistere più da vicino il congiunto, la possibilità di ricevere un contributo statale ecc.); ciò vale soprattutto per i pazienti immigrati. In sintesi, per tutti quei supporti finalizzati a migliorare la qualità dell’assistenza erogata dalla famiglia.
A tal proposito, ho infatti potuto notare che molto spesso i pazienti non sono a conoscenza delle normative nazionali e regionali che tutelano i loro diritti. In particolare quelli ancora inseriti nel circuito lavorativo sono all’oscuro di alcuni benefici di legge, come ad esempio il riconoscimento dell’inabilità al lavoro o l’eventuale pensione di reversibilità che può essere erogata al coniuge supersite, al minore o al disabile.
Posso affermare che questo servizio di consulenza per il disbrigo di varie pratiche burocratiche risulta molto gradito ed evita alla famiglia di misurarsi con difficoltà di questo genere, in un momento in cui essa è già sovraccaricata da aspetti organizzativi e logistici determinati dall’assistenza. Inoltre, riguardo a questo tipo di bisogno, ho potuto constatare che anche le persone che apparentemente sembrano non avvertirlo e non richiedono pertanto un intervento in tal senso, quando si trovano in situazioni in cui vengono ascoltate, riconoscono e apprezzano il beneficio che ne traggono.
Si può certamente affermare, pertanto, che le competenze dell’assistente sociale spaziano da un aspetto relazionale a uno prettamente pratico, fino a quello di integrazione e collegamento dell’hospice con gli altri soggetti sociali presenti sul territorio, fondamentali nel processo di aiuto al paziente e della sua famiglia. In questi ambiti di competenza l’assistente sociale è ampiamente coinvolta proprio per la specificità della sua professione .
L’altro aspetto da evidenziare della figura dell’assistente sociale che lavora in hospice – assolutamente contiguo ai precedenti o, meglio, come diretta conseguenza dei precedenti – è l’assoluta integrazione di questa figura professionale con il resto dell’equipe di cure palliative. In questo senso, l’assistente sociale opera all’interno di questa équipe multidisciplinare, superando l’accezione di semplice sommatoria di professionalità diverse, per agire piuttosto secondo modalità interdisciplinari. Per favorire questo aspetto è necessario che le informazioni rilevate da ciascun membro dell’équipe divengano patrimonio comune. Da qui la decisione di rendere, per esempio, il genogramma quanto più visibile dal resto dell’équipe, facendo quindi in modo che questo sia parte integrante della cartella clinica personale del paziente. A ciò si aggiunge, inoltre, la scelta di attivare varie e frequenti riunioni di équipe per condividere informazioni e rilevazioni importanti, discutere e fissare gli obiettivi da perseguire, concordare le modalità operative.
Nella mia esperienza ho osservato come la figura che più si integra con il lavoro e le competenze dell’assistente sociale è quella dello psicologo, che per tutte le ragioni viste prima può intervenire dal punto di vista relazionale in sintonia con l’aspetto sociale, proprio dell’assistente sociale. Ricordiamo che un problema psicologico può crearne uno sociale e che uno sociale può nascondere problemi a livello emotivo.
L’importante dato che emerge dalla mia esperienza è la trasversalità delle competenze dell’assistente sociale che opera in hospice, la quale è chiamata ad intervenire su più fronti. Può capitare che questa trasversalità venga intesa – a mio avviso con una certa superficialità – come carenza di specializzazione ed è innegabile che questo aspetto possa apparentemente rappresentare per la professione stessa un elemento di criticità aggravato dal fatto che, a causa della recente introduzione di questa figura nell’equipe di cure palliative, non esistono ancora dei protocolli condivisi dalla comunità di assistenti sociali presenti sul territorio nazionale. E’ proprio per questo che diventa impellente per gli assistenti sociali che lavorano in questo ambito, acquisire una metodologia di lavoro specifica e delle buone prassi condivise nell’implementazione dell’agire professionale. Per questo, sin dall’inizio della mia esperienza, ho sentito il bisogno di partecipare a percorsi formativi professionalizzanti e spazi di confronto – come quello di oggi – finalizzati a valorizzare le modalità d’intervento e le varie esperienze ad oggi già esistenti nei diversi hospice e servizi di cure palliative. Per questo credo sia auspicabile trasformare le competenze trasversali – oggi viste in larga parte come un limite – in una prospettiva qualificante per la professione dell’assistente sociale.
Giuliana Negro[1] Quando si parla di utenza in hospice occorre sempre fare riferimento al malato e alla sua famiglia.
Ultimo aggiornamento
27 Agosto 2012, 19:24